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Giovanni Falcone: non sono degni te

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“Quello che non perdono agli uomini del mio tempo non è tanto di essere vigliacchi, ma di costruire l’alibi della propria vigliaccheria, giorno dopo giorno, denigrando gli eroi”.

Questa massima, coniata da un giovane filosofo italiano, purtroppo prematuramente scomparso negli anni Settanta del secolo scorso, caratterizza, “abbastanza bene”, la cosmogonia di sentimenti e azioni che si sono mossi e si muovono intorno alla figura di Giovanni Falcone.

“Abbastanza bene”, perché per un senso compiuto avrebbe bisogno di una breve postilla: “…denigrando gli Eroi, salvo poi celebrarli ipocritamente dopo aver contribuito alla loro morte”.

Giovanni Falcone è stato ucciso dalla mafia, certo, ma la sua morte ha fatto comodo a molti che, con la mafia, convivono allegramente dalle dorate stanze del potere, salvo recarsi ogni anno in pellegrinaggio a Palermo e mettersi in prima fila, a favore delle telecamere, per rilasciare mortificanti e offensive dichiarazioni di circostanza, che fanno ribollire il sangue nelle vene a chi conosca i fatti.

Giovanni Falcone, alla pari di Paolo Borsellino, era considerato dai pochi veri amici un fuoriclasse, come ben traspare dalle dichiarazioni di Leonardo Guarnotta e Giuseppe Di Lello, che pubblicamente seppero ammettere la loro “marcia in più”: “Noi eravamo una squadra nella quale sapevamo che c’erano dei fuoriclasse, come Maradona, e dei portatori d’acqua”. (Leonardo Guarnotta).

“Emergeva molto, ma molto prepotentemente, la personalità dei due giudici istruttori, Falcone e Borsellino. Avevano insieme delle qualità che noi non avevamo: grande intelligenza, grandissima memoria, grande capacità di lavoro. Sarebbe stato sciocco, da parte nostra, mettere in dubbio questa gerarchia di fatto, perché forse, poi, mettendola in dubbio, potevamo essere sfidati a sostituirli e avremmo fallito miseramente”. (Giuseppe Di Lello). (Programma televisivo “La storia siamo noi” – puntata dedicata a Paolo Borsellino).

Va ricordata, altresì, anche la dichiarazione di Mario Almerighi, che in altra puntata del programma “La storia siamo noi”, dedicata a Giovanni Falcone, affermò testualmente: «Io credo che gran parte di questo sentimento di astio, che poi ha portato Giovanni Falcone in tanti momenti della sua vita all’isolamento, sia dovuto a questo sentimento che è molto diffuso nell’uomo e quindi anche nei magistrati, cioè l’invidia».

Un fuoriclasse, quindi, che rendeva più evidente e palpabile la mediocrità altrui. Se un osservatore freddo e razionale, però, si limitasse a studiare la vita di Falcone solo attraverso il curriculum vitae, dovrebbe concludere che tanta enfasi celebrativa manifesta un evidente paradosso, caratterizzato dalla massiccia sequela di brucianti sconfitte: bocciato come consigliere istruttore; bocciato come procuratore di Palermo; bocciato come candidato al CSM. La sicura bocciatura anche come procuratore nazionale antimafia fu “scongiurata” solo dalla sua morte. Che bravi!

Basta leggere gli atti del CSM che sancirono l’elezione del pavido Meli a Consigliere Istruttore del Tribunale di Palermo, le dichiarazioni dei vari membri del CSM, in particolare quella “dell’amico Geraci”, per comprendere che Giovanni Falcone iniziò a morire il 19 gennaio 1988.

Nel giugno 1993, Paolo Borsellino, nel suo ultimo intervento pubblico, prima di pagare anch’egli con la vita la dedizione allo Stato, commemorando l’amico di una vita, affermò con la mestizia nel cuore: «Quando Giovanni Falcone solo per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli.

Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli».

Qualche giuda, appunto! Quanti ve ne sono stati intorno a Giovanni Falcone e a Paolo Borsellino! “Il sangue dei Giusti è seme”, gridò qualcuno nel giorno delle esequie, ma bisogna tristemente considerare che, eccezion fatta per pochissimi magistrati, per di più “isolati e vessati”, quel grido di dolore non ha partorito una florida pianta dalla quale sgorghino uomini di pari valore.

La triste realtà, di là dalle ipocrite apparenze, è sotto gli occhi di tutti. Ipocrisia, congiure di bassa lega, meschinità e menzogne regnano sovrane, mentre i mandanti delle stragi gongolano e prosperano nel loro malato delirio di onnipotenza.

E oggi dobbiamo pure assistere al triste spettacolo di un Primo ministro che riceve un ergastolano come se fosse un Capo di Stato, di un partito che candia alle elezioni europee una facinorosa che va all’estero a picchiare persone, dopo aver collezionato in patria quattro condanne e ventinove denunce, mentre chiunque detenga anche un minimo potere politico si rimpingua le tasche con una famelicità e un senso di impunità che inorridiscono.  O tempora o mores, si diceva un tempo. Mala tempora currunt, si può dire oggi, con costumi sociali degradati a livello di infamia.

La tua morte, caro Giovanni – è amaro dirlo – alla pari di quella di tanti altri eroi, non ha redento nessuno. Sei morto invano, quindi, in un Paese dove in troppi non sono degni di te e quei pochi che lo sono hanno vita dura.

            Lino Lavorgna

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